Intervistare una diva non è mai facile. Quando poi la star in questione è fra le donne che hanno venduto più dischi al mondo ed è considerata l’icona pop più calda del momento, la faccenda diventa ancora più complicata. Ma può riservare anche i suoi lati curiosi. La strada che ci porta ad intervistare Beyoncé, comincia con un enorme SUV nero con i vetri oscurati che si ferma davanti a uno studio fotografico di New York dove, più tardi, abbiamo appuntamento con la cantante. Quando si apre la portiera posteriore, un uomo c’invita ad entrare. E’ un assistente di Beyoncé, incaricato di scortarci con la macchina del boss nello studio di registrazione usato dalla diva per il suo nuovo album. Nell’abitacolo posteriore della macchina ci sono due enormi sedili di pelle beige, talmente profondi che per appoggiarsi allo schienale i piedi si sollevano quasi da terra. L’aria è impregnata della fragranza fruttata che Beyoncé sta testando per il lancio di un nuovo profumo. “Occuparmi personalmente di tutti i dettagli che riguardano il mio lavoro è una questione di principio”, dice Beyoncé quando, qualche ora dopo, le chiedo come trova il tempo di pensare anche a nuove fragranze mentre lavora a un disco, si occupa del suo lancio e pianifica un nuovo tour mondiale.
Con milioni di dischi venduti e un reddito stimato di 87 milioni di dollari l’anno, nel 2010
l’artista occupava il secondo posto nella lista delle donne dello spettacolo più potenti del
mondo redatta da Forbes. Oltre a vendere dischi di successo da quando ha 16 anni, recita in film,
produce video e ha una linea di abbigliamento. Invece che delegare ad altri tutto ciò che non è
indispensabile, l’artista continua a coltivare direttamente il suo impero. “Spesso è mio marito o
la mia famiglia a impormi di staccare per un giorno o due, altrimenti io continuerei a lavorare a
oltranza”, aggiunge la cantante, che è sposata da ormai tre anni con il rapper e produttore
Jay-Z. Il tragitto dura poco e la macchina si ferma davanti ad un palazzo di MiMa, come
ultimamente viene soprannominata la parte di Manhattan fra la 34esima e la 45esima strada. Prima
di essere ammessi nello studio di registrazione al quattordicesimo piano, l’assistente ci chiede
di spogliarci di qualsiasi cellulare o apparecchio di registrazione. “Questione di sicurezza:
siete fra i primi ad avere il privilegio di ascoltare il nuovo album”, sottolinea l’uomo prima di
introdurci in una stanza di pareti marrone tappezzate con il simbolo di Luis Vuitton. In mezzo
c’è una consolle con centinaia di bottoni. E’ la sala di controllo che affaccia sullo studio di
registrazione, uno spazio dominato da un pianoforte a coda e una grande finestra che affaccia
sullo skyline di New York.
“Mi piace registrare in quello studio: la vista crea un’atmosfera speciale, soprattutto la sera
con i grattacieli illuminati e le luci delle strade”, dice Beyoncé, notando che la stragrande
maggioranza degli studi di registrazione è senza finestre. “Avere la luce naturale e un panorama
simile mi ha dato un’ispirazione diversa”. L’album mescola la voce di Beyoncé, sempre ricca di
melismi, a ritmi disco, R&B, hip-hop ed elettronici. I ritornelli sono orecchiabili e almeno un
paio di motivi rimangono subito in testa. S’intitola “4”, come la data di nascita dell’autrice
ventinovenne e il numero degli album da solista che ha prodotto dopo aver lasciato le Destiny’s
Child, la girls band che l’ha lanciata. L’artista ci ha lavorato un anno, registrando oltre 70
canzoni per arrivare poi a selezionarne una dozzina. “Avevo talmente tante idee in testa che ho
preferito registrare tutto e poi decidere”. Il disco arriva a tre anni dall’ultimo, “I am … Sasha
Fierce” con cui Beyoncé vinse sei Grammy Awards stabilendo il record per il maggior numero di
premi vinti da una donna nella stessa edizione. L’artista non aveva fretta di pubblicare un nuovo
album e, se avesse potuto, avrebbe aspettato ancora. Ma una fuga di notizie ha fatto circolare su
internet parti di un brano inedito, costringendola ad accelerare i tempi per il lancio ufficiale.
“Stavo godendomi un momento rilassato in cui riuscivo a dormire otto ore al giorno, lavorare con
calma, andare in palestra e stare con mio marito. Di colpo mi sono trovata a correre più di 12
ore al giorno per fare tutto di fretta”, confessa.
Finito di ascoltare il nuovo album, il SUV nero è pronto per riportarci allo studio fotografico
dove abbiamo appuntamento con Beyoncé.
Lo shooting si protrae per ore posticipando l’orario previsto dell’intervista, ma restare a
guardare è piuttosto interessante.Quando Beyoncé è sul palcoscenico i suoi assistenti mettono
alcuni brani del nuovo album “4” a tutto volume e la cantante finge d’interpretare le canzoni per
trovare la giusta ispirazione davanti alla macchina fotografica. Playback a parte, sembra quasi
di assistere ad un concerto privato.
Il set è stato preparato come un piccolo palcoscenico di teatro, completo di sipario con tende di
velluto rosso. Ad ogni posa, la diva appare con un nuovo abito e uno stile diverso. Davanti
all’obiettivo, Beyoncé ha la capacità di entrare ed uscire dalla parte in un attimo. Un momento è
seria, l’atro è voluttuosa e un altro ancora ha l’aria triste e gli occhi lucidi.
“Ho sempre cercato di essere una performer a tutto tondo: il mio lavoro è intrattenere e
comunicare, che sia attraverso una canzone, un film o una foto di moda. Per essere soddisfatta
non mi basta che la foto sia bella: voglio che trasmetta qualcosa”, dice alla fine dello
shooting. Come Eminem con Slim Shady, negli ultimi anni Beyoncé si è costruita un alter ego
chiamata Sasha Fierce, che la aiutava a trasformarsi nell’animale da palcoscenico sensuale e
aggressivo per cui è conosciuta in tutto il mondo. L’album “I am … Sasha Fierce”, ruota proprio
intorno a questa doppia personalità, con Beyoncé presentata con poco trucco e l’aria angelica e
il suo alter ego con gli occhiali scuri e le movenze provocanti. Con l’andare del tempo, però, la
cantante è diventata sempre più sicura di sé, e oggi non ha più bisogno di alcun personaggio
fittizio per dominare la scena e tenere ritmi di lavoro sostenuti. “Sasha serviva per
proteggermi. Ora non ne ho più bisogno, non ho più paura di mostrare il mio lato umano e le mie
emozioni più profonde. Anzi è quello che cerco”. Tanto da presentarsi all’intervista struccata,
con i jeans neri attillati e una maglietta qualsiasi bianca con un bollo rosso.Ci concede venti
minuti e poi ci lascia scusandoci. Sono le nove di sera ma la sua giornata è ancora lunga: deve
incontrare i musicisti che la accompagneranno al festival di Glastonbury, in Inghilterra, dove
quest’anno è uno dei nomi di spicco del line up.
© Nicola Scevola
The last day of the shooting for the launch of “The Joshua Tree” had not gotten off to an ideal start. «We had taken some photos in a couple of ghost towns near Yosemite Park and Death Valley with U2. Then we stopped at an abandoned shack on the road to Palm Springs and Bono flew into a rage: for him it was a big waste of time», recalls the Dutch photographer and filmmaker Anton Corbijn, who had organized the trip. «I replied that capturing the details is as important as taking great scenic views». Fortunately Corbijn, called by some the “fifth member of the band” (and also famous for having created the image of Depeche Mode and directed numerous music videos, as well as the films Control and The American), had already earned the trust of the Irish musicians by shooting the photos for their three previous albums. And it would seem that even the title of the new album, which would turn U2 into international rock titans, was his idea. «At the beginning of the trip it was going to be called “The Desert Songs” or “The Two Americas”. This is why I had chosen California’s deserts as the setting. But on the first day I told Bono the story of a tree in one of those deserts that the Mormon settlers had named the Joshua Tree, because its branches recalled the arms of the prophet Joshua raised to the sky, exhorting his people to follow him to the Promised Land. The next morning, Bono came down to breakfast with a Bible in hand and informed us that “The Joshua Tree” was the title of the new album».
At that point the photographer began to search for the right tree to use as the background for the famous portrait that appears inside the album cover. «I found it the second day, south of Zabriskie Point, where I’d taken what became the cover photo. I decided to use a panoramic lens that I was unfamiliar with to take full advantage of the vastness of the landscape». A week later, when picking up the negatives from the lab, Corbijn realized the risk he had run. The photos were all slightly blurred, with a single object in sharp focus in the background: the tree. «At first I felt my heart sink and thought, I screwed up. Only later did I realize that the photo was even more powerful like that». In the portrait, Bono, The Edge, Larry and Adam have intense, proud expressions, yet clouded by a veil of melancholy. «I’m still proud of it. It reminds me of the faces of immi- grants just landed in America. But with the success of the album, those photos were everywhere and ended up creating an image of U2 as being too serious, which was a bit at odds with their new status as global pop stars». To remedy the situation, from Achtung Baby forward, Corbijn chose to represent them in a more playful, less documentary style. «The band has always been committed to social issues, but that doesn’t mean that they didn’t know how to have fun.
The serious expressions of “The Joshua Tree” are actually due to how cold it was (to give
greater coherence to the setting desert, Corbijn asked the musicians to take off their coats,
even though it was December and the temperatures were barely above freezing, author’s note)».
That image of the band isn’t the only “misunderstanding” that came out of the photo shoot: the
album title led many fans to believe that the photos have been taken in Joshua Tree National
Park, which is in fact located 300 kilometers to the south. «I’ve never been to that park, but
unfortunately the misunderstanding resulted in tragedy: in 2011 a pair of fans ventured out in
search of the tree and lost their bearings. They died from sunstroke». Sadly, although the two
were aware of the exact location of the famous picture, they wouldn’t have found it. «It’s gone,
it’s been cut down, or perhaps killed by fans who took home branches as souvenirs». Thinking back
to those memorable days, Corbijn concludes, «My only regret is not having immediately grasped the
album’s full import. But that’s normal: it’s difficult to realize you have a master- piece in
front of you while you’re working on it».
© Nicola Scevola
Mentre il telefono squilla e aspetto che Willem Dafoe alzi la cornetta, mi domando chi troverò all’altro capo del filo. L’attore ha sempre preferito farsi conoscere attraverso i personaggi interpretati al cinema o a teatro. Il che significa che, potenzialmente, potrei aver a che fare con soggetti piuttosto estremi. C’è il Goblin dell’Uomo Ragno e il Salvatore dell’Ultima tentazione di Cristo; il sergente idealista di Platoon e il criminale psicotico di Cuore Selvaggio; il padre disturbato dell’Anticristo di Lars von Trier e il vampiro attempato che fa la parte di Nosferatu ne L’ombra del vampiro. Quando Dafoe alza la cornetta, invece, mi trovo a chiacchierare con una persona affabile e diretta. L’unico indizio che lo riconduce ai personaggi interpretati sul grande schermo è il timbro caldo e gutturale della voce. Per un attimo m’illudo di riuscire a scoprire finalmente qualcosa dell’uomo che si nasconde dietro alle maschere da palcoscenico, ma nel giro di poco capisco che è più difficile del previsto.
“Sono un attore, non una star”, sottolinea subito Dafoe parlando al telefono da un albergo di
Atene, dove è impegnato in una commedia teatrale del regista Bob Wilson.“Preferisco farmi
conoscere attraverso il mio lavoro”. Il che è perfettamente comprensibile, anche ammirabile in un
mondo ossessionato dell’esibizionismo e dal culto della celebrità. Salvo renderlo un soggetto un
po’ ermetico da intervistare. L’attore originario del Wisconsin è sempre stato più interessato
alla sperimentazione che alla fama. E anche quando capita che qualcuno lo riconosca per strada,
tende a nascondersi dietro ai personaggi interpretati. “Di solito il ruolo per cui mi riconoscono
dice più a me della loro vita che a loro della mia”, dice l’artista 58enne. “Il mio lavoro è più
facile se mantengo un alone di mistero”. Al cinema ha continuato ad alternare grandi produzioni a
progetti indipendenti, senza mai trascurare il teatro, dove negli anni Settanta ha fondato la
compagnia sperimentale Wooster insieme alla regista Elisabeth LeCompte. Questo ne ha fatto una
sorta di outsider rispetto al circuito hollywoodiano, rendendolo anche più avverso a esporsi.
Dafoe teme che rivelare ciò che pensa possa intaccare la sua libertà d’interpretare i ruoli più
disparati. Per questo, quando esco dal seminato dei discorsi su cinema e teatro, ricevo spesso
risposte volutamente generiche. “Se parlassi delle mie idee politiche, ad esempio, rischierei di
condizionare il modo in cui un certo tipo di pubblico vede i miei personaggi. Purtroppo oggi la
cultura dello spettacolo è stata fagocitata da quella dell’intrattenimento e del pettegolezzo.
Certo, il mio lato pragmatico sa che giocare a fare la star a volte può offrire delle
opportunità. Ma mi limito a sfruttare la fama come strumento di lavoro, non come un fine in sé”.
Per aprire uno spiraglio sulla sua persona ho dovuto quindi sbirciare dagli scorci che emergevano
casualmente. Gli ho chiesto dei personaggi sinistri che lo hanno reso famoso sul grande schermo (
“Sono attratto dalle situazioni estreme e dai soggetti che vivono ai margini della società”); del
suo rapporto con lo star-system (“Che incubo!”); e dei progetti futuri, che lo vedranno tornare
sul grande schermo con due nuove collaborazioni con Abel Ferrara e Lars von Trier. Sotto la
direzione del primo, Dafoe interpreterà Pier Paolo Pasolini, ricostruendo l’ultimo giorno di vita
del poeta bolognese.
Di questo personaggio preferisce non parlare troppo per evitare di creare condizionamenti. Pur
conoscendo bene le opere di Pasolini, vuole interpretare il personaggio nel modo più fisico
possibile, “come fossi un ballerino che si fida più del corpo che della testa”. Questo è sempre
stato il suo modo di affrontare i ruoli che gli sono stati affidati. Per questo cerca di eseguire
personalmente i suoi stunt, anche a costo di subirne le conseguenze. Sul petto ha ancora i segni
di quando il suo costume di Goblin ha preso fuoco durante una scena di Spiderman e una cicatrice
rimediata a teatro mentre faceva acrobazie con un coltello. Per evitare di ricorrere a
controfigure, deve mantenere un fisico elastico e allenato. Ma piuttosto che frequentare la
palestra come molti suoi colleghi, preferisce praticare yoga. “Lo faccio tutti i giorni da
trent’anni”. Nella collaborazione con Trier, invece, affiancherà nuovamente Charlotte Gainsbourg
per l’ultimo capitolo della trilogia del regista danese sulla depressione, intitolato
Nymphomaniac. Il primo capitolo, Anticristo, aveva suscitato un vespaio di polemiche per le scene
di sesso esplicito e violento. E questo nuovo progetto promette altrettanto, anche se Dafoe ha
preferito scegliere un personaggio più defilato.“Stavolta niente sesso, non voglio diventare la
figura di mezza età che si spoglia in ogni film”. L’attore cerca sempre di evitare di ripetere
situazioni già vissute. Per fare bene il suo lavoro s’impone di trovare nuovi stimoli che lo
costringano ogni volta ad affrontare l’ignoto. Ma se nella vita professionale preferisce fuggire
dalla routine, in quella personale si trova a fare il contrario. “Pur essendo nomade, la mia vita
privata è abbastanza ripetitiva. Viaggio molto per lavoro, ma cerco sempre di avere mia moglie al
fianco. Lei è la mia casa e insieme abbiamo le nostre abitudini”.
La moglie è Giada Colagrande, regista italiana di vent’anni più giovane, conosciuta nel 2004 a
Roma dopo una proiezione del primo lungometraggio realizzato da lei e intitolato Aprimi il cuore.
Poco dopo Dafoe è stato invitato a lavorare al secondo film della cineasta abruzzese, che
racconta della passione fra una giovane vedova e il guardiano della casa del suo defunto amante,
in cui l’attore americano è protagonista insieme all’autrice. In breve, la scintilla nata sul set
ha contagiato la vita reale e circa un anno dopo, i due si sono sposati a New York con una
cerimonia civile cui erano presenti solo pochi intimi. Quello che ha fatto scattare la molla che
ha portato Dafoe e Colagrande a giurarsi amore eterno in così poco tempo, l’attore lo tiene
ovviamente per sé, ignorando la mia domanda. Sull’aspetto più impulsivo del gesto, invece, è
disposto a concedere qualcosa: “Non ne abbiamo parlato molto. Un giorno stavamo pranzando e ho
chiesto a Giada se voleva sposarmi. Ho chiamato in municipio e mi hanno spiegato che se fossimo
riusciti ad arrivare lì entro un’ora avremmo potuto sposarci il giorno dopo. Ci siamo infilati in
un taxi, abbiamo compilato le carte e il pomeriggio seguente eravamo marito e moglie”.
Dafoe non si era mai sposato prima, pur essendo stato legato per molti anni alla regista teatrale
Elisabeth LeCompte, con cui ha avuto un figlio, Jack. Come Colagrande, anche LeCompte è stata sua
compagna nel lavoro, oltre che nella vita privata. Nelle pause dal grande schermo, Dafoe ha
sempre lavorato con la compagnia teatrale che avevano fondato insieme. Dopo la separazione, però,
la relazione professionale si è interrotta, ma questo non ha impedito a Dafoe di trovare
alternative che lo portassero a misurarsi in teatro, sua grande passione insieme al cinema.
Questo inverno porterà a New York insieme alla performer Marina Abramovic una piece intitolata
Vita e morte di Marina Abramovic che ha già presentato con successo in varie città europee.
Quando non sono in giro per lavoro, i coniugi Dafoe dividono il loro tempo fra Roma e New York e
da qualche anno Willem è anche diventato cittadino italiano. L’attore si dice grande appassionato
del Belpaese, ma quando gli chiedo cosa pensa della situazione attuale, si smarca con una delle
sue risposte generiche.
“Vedo un certo declino, ma questo è un fenomeno comune a tutte le società occidentali, compresa
quella americana”. E quando provo a insistere chiedendogli se il declino italiano l’abbia toccato
personalmente, Dafoe si chiude a ricco: “Ho le mie opinioni ma non sono ancora del tutto formate
e non mi sento di esprimerle”, conclude secco. Forse con quest’ultima domanda mi sono spinto
troppo il là.
© Nicola Scevola
Quando comprò la sua prima casa in una delle vie più esclusive di Beverly Hills, Sammy Davis Jr. non chiese aiuto a un architetto per arredarla. La villa di Summit Drive era passata dalle mani di Tony Curtis a quelle di Joan Collins, e aveva bisogno di una rinfrescata. Ma l’intrattenitore, ancora oggi considerato l’artista di colore più famoso d’America, preferì fare di testa sua. Solo alla fine si rivolse alla decoratrice del suo nightclub preferito, che gli consigliò di aggiungere un divano circolare sprofondato nel pavimento e una vasca di peschi piranha al posto del camino. “Ne andava fiero perché gli ricordava l’atmosfera dei locali notturni in cui era cresciuto”, ricorda Amy Greene, amica del cantante di Harlem e moglie dell’autore di questo servizio fotografico. Davis cominciò ad esibirsi quando aveva tre anni in spettacoli di vaudeville. In seguito alla separazione dalla madre Elvira, il padre lo portava con sé in tournè, travestendolo all’occorrenza da adulto-nano per sfuggire alle leggi contro il lavoro minorile. Da allora la vita di Davis è sempre ruotata intorno a nightclub e cabaret. Soprattutto a Las Vegas, dove la sua fama trova consacrazione alla fine degli anni Cinquanta, quando Sinatra lo invita ad aggiungersi a Dean Martin, Peter Lawford e Joey Bishop per formare il mitico Rat Pack.
Non è un caso, quindi, che il centro di gravità della villa di Beverly Hills fosse il bar del
salotto. “C’era sempre un gran viavai di gente e Sammy si divertiva improvvisandosi barman e
intrattenendoci da dietro il bancone”, ricorda Greene che, pur vivendo a New York, era un’ospite
regolare col marito Milton. “Per noi era come una seconda casa sull’altra costa”. Musicista,
ballerino, comico e attore, Davis viaggiava molto per lavoro, ma quando era a Los Angeles usciva
di rado, preferendo ospitare feste e banchetti. Dietro gli alti muri che cintavano il giardino,
al riparo da occhi indiscreti, aveva costruito tutto ciò che gli serviva: la villa di mille metri
quadri aveva una piscina, una sala prove e uno studio di registrazione. C’erano una stanza per le
pistole (che il protagonista della versione originale di Ocean’s 11 maneggiava con destrezza e
collezionava avidamente) e una cucina professionale, dove Davis si cimentava preparando cene e
manicaretti. E un grande schermo per proiettare film che riusciva spesso ad ottenere in
anteprima. Il cantante possedeva una grande collezione di pellicole e le sue movie-night erano un
appuntamento fisso, a cui partecipavano gli ospiti più disparati: dall’anchorman Johnny Carson
all’attrice porno Linda Lovelace, protagonista del film Deep Throat di cui Davis era un grande
ammiratore. La sua rubrica di contatti, che portava con sé anche in viaggio, conteneva migliaia
di numeri di telefono. “Poteva alzare la cornetta e chiamare Grace Kelly”, dice Greene “Aveva il
numero di chiunque contasse qualcosa in America”.
L’artista aveva un ristretto gruppo di amici intimi, ma le sue frequentazioni erano molto varie e
gli invitati tendevano ad avere un tratto comune: erano persone brillanti con qualcosa da dire.
Fin da giovanissimo Davis era stato impegnato sui palcoscenici di mezza America senza avere il
tempo di finire le scuole. Aveva imparato da solo a leggere e scrivere ma, da persona curiosa ed
intelligente, era riuscito nel frattempo a costruirsi una buona cultura da autodidatta. “Quando
era a casa amava circondarsi di persone intelligenti che potessero stimolarlo intellettualmente”,
dice Joshua Greene, figlio di Amy a cui Davis fece da padrino. “Era come una spugna: assorbiva
tutto”. I gusti lussuosi di Davis sono evidenti in tutta la casa, equipaggiata con gli ultimi
ritrovati della tecnologia, compresa una collezione di videogiochi da bar (Pacman era il suo
preferito) e un impianto di telecamere a circuito chiuso che gli permetteva di controllare ogni
angolo della villa direttamente dalla camera da letto. Oltre ad essere curioso di natura, Davis
aveva qualche buon motivo di essere preoccupato per la sua sicurezza. Da sempre in prima linea
nella battaglia per il riconoscimento dei diritti civili, fu minacciato più volte per la sua
visione liberale dei rapporti interraziali. Negli anni Cinquanta, quando cominciò a circolare la
notizia che il cantante avesse una relazione clandestina con Kim Novak, fu minacciato
ripetutamente e finì con lo sposare in gran fretta una ragazza afroamericana per riparare lo
scandalo. Il matrimonio non durò e quando, pochi anni dopo, l’attore si risposò con l’attrice
svedese May Britt le minacce ricominciarono. Ma Davis non si preoccupò mai più di tanto,
continuando con il suo stile di vita un po’ sopra le righe.
In casa fece trasformare una stanza gigantesca nel suo guardaroba per ospitare una collezione di
scarpe e vestiti che faceva invidia a un grande magazzino. Aveva un camerino per prepararsi alle
serate importanti, un maggiordomo che si prendeva cura dei suoi abiti e un parrucchiere che lo
pettinava. C’era anche un armadio riservato agli occhiali da sole che, dopo l’incidente in cui
perse un occhio, non si toglieva mai fuori da casa. “L’occhio di vetro gli dava fastidio e quando
era senza occhiali continuava a tormentarlo con un fazzoletto”, ricorda Greene. Era sempre
elegante e arrivava a cambiarsi d’abito anche tre volte al giorno. Oltre a Sinatra, di cui
tendeva a seguire l’esempio come di un fratello maggiore, i suoi modelli di stile erano Cary
Grant e Fred Astaire. Non in tutto, però, Davis aveva gusti raffinati. “I quadri alle pareti
erano orrendi, ma a volte si lasciava consigliare. Comprai per conto suo un dipinto di Andy
Warhol, senza che neanche sapesse di cosa si trattava”, ricorda Greene. Davis visse in quella
casa oltre vent’anni. In questo periodo al suo fianco si sono alternate due mogli e un numero
imprecisato di amanti. Ma la villa di Summit Drive è sempre rimasta unicamente espressione del
carattere da bon viveur del suo proprietario. “Senza il suo permesso – conclude Greene – lì dentro nessuno osava spostare neanche una sedia”.
© Nicola Scevola
“Andare a lezioni d’amore potrebbe aiutarci nella vita”. Con tre matrimoni e una serie di relazioni burrascose alle spalle, Jennifer Lopez parla per esperienza. Seduta nello studio della sua villa di campagna alle porte di New York, tocca l’argomento raccontando di Love, primo album prodotto dalla nascita dei due figli gemelli, Emme e Maximilian. “L’amore è la cosa più importante della vita, ma non se ne parla mai abbastanza”, sottolinea Lopez. Difficile definire originale il tema scelto per il nuovo disco. Nonostante questo, la regina del Bronx è convinta che stimolare il dibattito in materia sia sempre utile. “Anche fra donne si parla tanto di uomini, ma poco di cosa vuol dire portare avanti una relazione matura”. Prima di sposare l’attuale marito, l’idolo del pop latino americano Marc Anthony, Lopez era già stata portata all’altare da un cuoco di origini cubane, Ojani Noa, e da un ballerino con cui lavorava, Cris Judd. Entrambe i matrimoni naufragarono dopo meno di un anno. Poco dopo la seconda separazione, la cantante-attrice stava per convolare a nozze una terza volta con l’attore Ben Affleck, ma cambiò idea a poche ore dalla cerimonia.
Le separazioni dagli ex compagni si sono trasformate in faide dolorose, combattute sotto le
lenti avide dei media, e il nuovo disco è ricco di riferimenti alle esperienze passate. “Oggi mi
sento una persona più consapevole. Non voglio cercare di insegnare niente a nessuno, perché non
credo di avere tutte le risposte in tasca. Ma vorrei che questo disco aiutasse a riflettere”.
Lopez è cresciuta in una famiglia tradizionale, con una mamma casalinga, un padre impiegato, i
nonni sempre intorno e la chiesa la domenica. Ricreare un ambiente simile per i suoi figli è
sempre stata una priorità. Oggi è fiera della famiglia che ha costruito insieme ad Anthony,
vivendo con i gemelli di due anni fra Los Angeles e New York. Quando sono nella villa immersa nei
boschi a un’ora da Manhattan, è sua madre ad aiutarla con i bambini. In California, invece, sono
tre cugine a darle una mano. “Prima ero troppo immatura per capire quanto lavoro occorre per far
funzionare una famiglia. Nessuno ti prepara per le difficoltà e i problemi che ci sono in
qualsiasi matrimonio”. I sei anni passati con Anthony e la maternità hanno cambiato le sue
prospettive.
Pochi mesi prima della nascita dei gemelli, Lopez ha scelto di allontanarsi dalla scena pubblica
per la prima volta da quando è salita alla ribalta come attrice, a metà degli anni Novanta. E’
stata una pausa salutare, che le ha dato il tempo di riflettere e la voglia di ricominciare a
giocare il ruolo della diva sexy che ha sempre impersonato. “All’inizio tutto gira intorno ai
bambini. Oggi loro rimangono la priorità, ma ho riacquistato il mio sex appeal e la mia energia”.
In quanto a presenza, la cantante quarantenne ha poco da invidiare alle nuove dive del pop che si
contendono la scena. Si presenta all’intervista con un maglione di lana a collo alto, jeans
attillati e una coppola di velluto scuro che mette in risalto gli occhi color nocciola. Ha forme
più arrotondate rispetto ad un tempo, ma la pelle è luminosa e senza una ruga. La competizione
con donne giovani come Lady Gaga, Rihanna o Beyoncé non la spaventa, perché è convinta ci sia
spazio a sufficienza per tutte. Quando nel ‘99 Lopez conquistò per la prima volta le classifiche
mondiali con l’album On the 6, era il tempo delle boys-band, stile Take That.
“Oggi le donne dominano la scena, ma se dovessi cominciare a preoccuparmi di chi ha 20 anni meno
di me, sarei una persona infelice”, dice dopo aver riflettuto qualche istante. Nonostante la fama
di star capricciosa, Lopez non rifugge dai temi più spinosi, rispondendo con toni affabili e
cordiali. “L’importante è essere onesti con se stessi e con il proprio pubblico”. La diva non
rinnega nulla del suo passato. Si sente ancora Jenny-from-the-Bronx ed è convinta che questo
l’aiuterà a tornare in sintonia con i suoi fan.
“Non abito più in quel quartiere e ho una casa molto più grande, ma dentro sono ancora la ragazza
che ero”. L’educazione solida impartita dai suoi genitori e la vita “normale” vissuta prima di
diventare famosa, le hanno permesso di non perdere il senso della realtà. All’inizio, però, la
fama le ha dato qualche scompenso. Dopo i primi momenti di euforia, la perdita di anonimità e le
grandi aspettative che tutti avevano nei suoi confronti le causarono problemi d’ansia, sfociati
in veri e propri attacchi di panico. “Mi sono sentita meglio solo quando ho capito che, anche se
la mia percezione esterna era cambiata per sempre, dentro rimanevo la stessa”. Oggi Lopez vuole
tornare a contatto con il pubblico e il nuovo album, in uscita per l’estate, potrebbe essere
l’occasione giusta per un rientro in grande stile.
L’intervento a Sanremo di quest’anno è servito come prova generale e il risultato l’ha lasciata
soddisfatta. Pochi mesi prima, una caduta durante una performance agli American Music Awards, le
aveva creato qualche imbarazzo. La standing ovation del pubblico dell’Ariston, invece, le ha
fatto ritrovare la voglia di esibirsi dal vivo. “E’ stato davvero emozionante, era tanto che non
venivo in Italia e mi sono sentita così benvoluta. Il prossimo obiettivo è cantare dal vivo il
più possibile: vorrei essere ricordata come una performer d’eccezione”. Lopez non fa in tempo a
finire la frase che, dal secondo piano, parte il pianto disperato di un bambino. Non è il primo
che si sente durante l’intervista, ma stavolta l’urlo è decisamente più forte e il tempismo
sembra fatto apposta per sottolineare le nuove priorità della cantante. La quale sparisce
rapidamente borbottando una scusa e torna dopo pochi minuti con in braccio Emme, una bimba con i
boccoli biondi e gli occhi lucidi. Pochi istanti e nello studio fa irruzione anche Max, il
fratellino. Quando vede che la mamma tiene in braccio la gemella, è il suo turno per scoppiare in
lacrime. Appena finito, si mette nei pericoli cercando di ribaltare un pesante modellino di
automobile appoggiato sulla scrivania. Quando, infine, si avventa sulle pagine del taccuino del
giornalista che fa di tutto per contendersi le attenzioni di sua mamma, appare chiaro che
l’intervista è definitivamente conclusa.
© Nicola Scevola
A volte capita che le persone somiglino alle case in cui vivono. Nel caso di Franco Pagetti, fotografo eclettico, famoso per aver ritratto i conflitti più caldi degli ultimi decenni, è una bella costruzione industriale d’inizio Novecento alla periferia milanese. Il progetto è italiano ma ha un sapore internazionale, ricorda una warehouse americana in salsa meneghina, con la facciata in cemento armato, le grandi finestre rettangolari, le ringhiere in ferro battuto, gli scalini e i ballatoi di pietra sbeccata. Allo stesso modo, l’inquilino con lo studio fotografico al quarto piano e l’abitazione al quinto è nato a Varese ma è divenuto presto cittadino del mondo, parla un inglese fluente con accento lombardo ed è a casa sua a New York, Kabul, Tripoli, Aleppo o Bagdad, dove per sei anni è stato corrispondente di Time Magazine. Costruita negli anni Venti per alloggiare piccole realtà industriali, la palazzina si è saputa convertire e reinventare più volte: oggi ospita una palestra, una casa di produzione e vari studi professionali. Un po’ come Pagetti che, avendo cominciato a insegnare chimica, è diventato commesso in una libreria, assistente di una famosa fotografa di architettura, fotografo di moda e infine inviato di guerra.
“Ci ho messo del tempo per capire cosa volevo fare”, ammette Pagetti, lo sguardo simpatico
incorniciato dalla montatura tonda degli occhiali, il baffo bianco leggermente macchiato dalla
nicotina. “Volevo maturare umanamente e fotografare i conflitti in giro per il mondo me ne ha
dato l’opportunità”. Prima di cominciare a viaggiare in paesi come Iraq, Afghanistan, Sierra
Leone, Siria sulla soglia dei cinquant’anni, Pagetti scattava modelle e pubblicità. Un passato
che non ha mai rinnegato, nemmeno dopo essersi guadagnato fama e onori al fronte, oltre che un
posto nella prestigiosa agenzia VII. Al punto che il suo editor al Time lo prendeva in giro
dicendo che i suoi scatti da Baghdad erano sempre pieni di donne eleganti. Anzi, quell’esperienza
gli è tornata utile più volte, anche in quello che lui considera “il servizio più importante che
ho fatto in Iraq”: un reportage sulla sottile differenza fra musulmani sciiti e sunniti, che
ancora oggi frattura la regione fra il Tigri e l’Eufrate. Le diversità fra i due gruppi si
manifestano principalmente nei nomi e nel modo di pregare. Non potendo entrare in moschea per
ragioni di sicurezza, però, Pagetti era in ambasce. Fu allora che ripensò a una campagna di moda
in cui aveva ritratto un volto specchiato in una bottiglia di profumo e decise di fotografare i
visi di sciiti e sunniti sovrapposti alla loro carta d’identità.“La differenza era che qui
scattavo con i marines che mi aspettavano fuori dalla porta, pronti a radere al suolo tutto per
venirmi a salvare se non fossi ricomparso entro 30 minuti esatti”.
Il rovescio della medaglia di vivere fra bombe e proiettili è che oggi il fotografo 68enne evita
le sale buie dei cinema e i ristoranti dove non può sedere con le spalle al muro e gli occhi alla
porta d’ingresso. L’esperienza, però, l’ha fatto crescere tanto anche da un punto di vista
fotografico. “Vengo da una famiglia di contadini e ho sempre pensato di avere una cultura
lacunosa. Ma ho l’umiltà di ascoltare le critiche e il senso del dovere per farne tesoro”. Prima
di morire tragicamente in Libia nel 2011, l’amico e collega Tim Hetherington gli dice che le sue
immagini sono evocative ma mancano di “intellettualità”. All’inizio Pagetti fatica a capire, poi
piano, piano realizza: le sue foto nascono dalla pancia. Come la palazzina in cui vive, disegnata
con vocazione pratica e finita a servire propositi più sottili, decide allora di cambiare,
provando a dare più spazio alla riflessione. I primi risultati sono una serie di paesaggi
ondulati dell’Hindu Kush afghano scattati dall’elicottero. “Non immagini pensate per i giornali,
ma per ragionare sulla bellezza di questi luoghi, che dall’alto rimangono tali nonostante la
guerra che li insanguina da decenni”.
E diventa ancora più chiaro nel suo ultimo reportage dalla Siria datato 2013. Al posto
d’immortalare l’orrore della guerra attraverso le macerie e gli spari, come aveva già fatto tante
volte, Pagetti ritrae le tende tirate fra i palazzi in rovina. Gli stessi drappi di cotone
colorato che campeggiano sui balconi delle case arabe per proteggere gli appartamenti dal sole e
dagli sguardi indiscreti. Che in questo caso sono stati cuciti insieme dalle donne di Aleppo per
proteggere il passaggio degli uomini dal fuoco dei cecchini. Ancora adesso, quando ormai non ha
certo bisogno di dimostrare nulla, il fotografo italiano è pronto ad ascoltare consigli e
critiche. Come è successo un paio d’anni fa quando Dolce e Gabbana l’hanno contattato per
scattare una campagna nelle vie di Napoli. “Erano anni che non facevo moda, all’inizio ero nervoso e impacciato. Gli stilisti mi urlavano di fregarmene dei vestiti, di essere me stesso”.
Il prodotto finale è una campagna di successo dal sapore neorealista, con tanta spontaneità e
pochi ritocchi, che ha ridato impulso alla sua carriera commerciale portandolo a lavorare per
altre firme. “Quando mi hanno detto che gli scatti erano buoni, ho tirato un sospiro di sollievo:
è stata una bella chiusura del cerchio”. Tornare a fotografare la guerra alla sua età non è
facile. Anche Pagetti, come il palazzo in cui vive, comincia ad avere bisogno di qualche
supporto. “Se mi bloccano l’affitto per 20 anni, ho proposto ai proprietari di mettere
l’ascensore a mie spese”. Intanto, per non restare fermo, ha deciso di dedicarsi a fotografare
per la prima volta il suo paese con un progetto ambizioso: seguire le orme di Goethe dal Brennero
alla Sicilia.
© Nicola Scevola
Da bambini molti sognano di fare l’astronauta, ma sono pochi quelli che ci riescono una volta cresciuti. Luca Parmitano è fra quei pochi, ed è anche il primo italiano ad aver camminato nello spazio. “E’ un sogno che mi porto appresso da sempre. E’ solo cambiata la consapevolezza di quanto lavoro serve per poterlo realizzare”, dice il trentasettenne di Paternò al telefono dalla base della Nasa a Houston, Texas. La sua prima missione a bordo della Stazione Spaziale Internazionale è terminata con successo meno di due mesi fa. Ma Parmitano è ancora impegnato nella fase post-volo, che consiste in esercizi di ricondizionamento fisico e test per verificare le reazioni del suo corpo alla permanenza nello spazio, durata quasi sei mesi. Vivere così a lungo in assenza di gravità disabitua l’uomo a usare i piccoli muscoli che aiutano l’equilibrio. “Rientrare a Terra è stato uno shock. Sembrava di camminare portando me stesso sulle spalle”, dice Parmitano che, nonostante il suo fisico atletico, la prima settimana dall’atterraggio è stato costretto a camminare molto lentamente per non perdere l’equilibrio.
Non che nello spazio il pilota dell’Aeronautica italiana non fosse impegnato. La sua giornata
tipo comprendeva 8 ore di lavoro e 2 di esercizio fisico. Oltre alle sue mansioni specialistiche,
ogni membro dell’equipaggio è anche cuoco, medico e scienziato. Durante il suo soggiorno sulla
ISS, il maggiore ha dovuto compiere decine di esperimenti medici in cui lui stesso era la cavia.
Come ingegnere abilitato a manovrare il braccio robotico della stazione, Parmitano ha assistito
l’attracco di un paio di navicelle in arrivo dalla Terra. E ha compiuto due passeggiate fuori
dalla ISS, guadagnando il primato di Italian Spacewalker. Proprio durante una di queste missioni,
ha anche affrontato una delle pochissime emergenze capitate in una Extravehicular Activity, come
in gergo sono chiamate le camminate nello spazio. Mentre stava lavorando agganciato al guscio
esterno della ISS, sospeso nel nulla siderale, Parmitano ha cominciato a sentire dell’acqua che
gli saliva per la nuca. All’inizio ha pensato fosse sudore dovuto alla fatica. Le tute spaziali
sono pressurizzate e qualsiasi movimento richiede uno sforzo notevole. Appena comunicata questa
sensazione alla base, però, i tecnici terrestri hanno deciso di interrompere la missione,
chiedendo a Parmitano di rientrare sulla ISS. A causa di una perdita nel circuito di trasporto
della condensa della tuta, dopo pochi istanti l’astronauta si è trovato con circa un litro
d’acqua nel casco, che lo rendeva semicieco e gli impediva di comunicare e respirare
correttamente. E’ solo grazie al suo sangue freddo e a un cavo d’emergenza che ha seguito come
Pollicino, se Parmitano è tornato salvo a bordo. Ma se in quella situazione ha provato paura,
l’astronauta non lo dice.
“La capacità di pensare in modo lineare durante momenti di rischio è dovuta all’addestramento che
ho ricevuto. Solo dopo prendi consapevolezza e senti un brivido lungo la schiena”. Gli incidenti
di percorso e l’intensa routine di lavoro non vogliono dire, però, che non ci siano stati anche
momenti di relax durante la missione. Ogni cosmonauta può portare a bordo della stazione un chilo
e mezzo di effetti personali, che Parmitano ha investito quasi interamente in libri e musica:
rock, jazz, fusion e classica. Ogni volta che ne aveva l’occasione si ritirava nella Cupola,
sorta di finestra panoramica per osservare la Terra illuminata da una delle 16 albe che si
susseguono dallo spazio e scattare foto. “Vista da lassù la Terra è meravigliosa. Se fossi un
viaggiatore alieno non vorrei fare altro che scendere a vedere com’è”. Viaggiatore alieno? Sì,
avete letto bene: ha detto alieno. Possibile che un astronauta vero, un militare tutto d’un pezzo
come lui possa davvero credere che esistano forme di vita oltre la nostra? “Con tutto lo spazio
che c’è, sarebbe un peccato sprecarlo”, risponde Parmitano con un sorriso nella voce. “Mi piace
pensare che da qualche parte, in qualche altro mondo, esista qualcosa di paragonabile a quello
che noi chiamiamo vita. Che poi sia simile o completamente differente, questa è una risposta che
lascio a chi avrà l’opportunità di esplorare lo spazio in un futuro”. Detto da uno spacewalker
come lui, c’è da crederci.
© Nicola Scevola
The first thing I notice upon arriving beneath a downpour at the country home of Philippe Petit is a steel cable stretched between two trees. The bucolic getaway of the world’s most famous tightrope walker obviously couldn’t be without a training set-up, and the century-old trees in this forest just a couple of hours outside New York seem made for such a purpose. Petit began challenging gravity by walking through the sky at the age of 16. He walked on cables strung between the spires of Notre Dame in Paris, between the pylons of a bridge in and between the buildings of Jerusalem. His most famous performance dates back to 1974, when he connected the tops of New York’s Twin Towers and took a 45-minute high-wire stroll 1,200 feet above the ground. Since then he has done dozens of such stunts, and at age 63 he’s still in good enough form to be planning a new walk between the statues of Easter Island. “I train three hours a day, six days a week, and I feel like I’m at the peak of my career”, he confides after having invited me into his refuge, a small wooden house with walls covered in paintings and drawings of knotted rope.
To stay in shape Petit uses the cable strung between the trees, or when it’s too cold, or
raining like today, he uses a stable next to the house that he built by hand, without electricity
or modern tools. For him, regularly practicing the art of tightrope walking is particularly
important. Petit never employs safety measures for his performances, so knowing his physical and
mental limits means the difference between life and death. “I’ve never even considered the idea
of safety measures”, he assures me, as if surprised by the absurdity of the question. Even when
his mentor, Rudolf Omankowsky, the great Czechoslovakian funambulist, advised him to hide a
safety cord in his costume for the World Trade Center performance, Petit refused. “He said that
no one from the ground would ever know. But I feel like I am half man and half bird, and no bird
has ever flown on a leash”. This modern Icarus is small in stature, with a lean frame and
well-groomed hands: muscular like those of a rock climber, agile like a magician’s.
In addition to his high-wire act, the Frenchman is also a juggler, magician, mountain climber and
enthusiast for any form of DIY. His fingers are capable of tying and untying any knot with
astonishing speed. After all, in his trade this is a fundamental skill, about which he authored a
manual entitled “Why Knot?”, recently published in the US (Abrams Image). Petit personally
designs and builds the various systems for securing the wires he walks on, and before every
performance he obsessively inspects all the knots to ensure that they’re executed properly. This
attention to detail has saved him more than once, noticing just in time little flaws that would
have ruined his show, not to mention his life. This meticulousness is also reflected in his
personal life, which makes him, by his own admission, “a bit of a control freak”. His home is
extremely neat, and every time I inadvertently move something on the table between us, Petit is
quick to put it back in its place. “When I go to a restaurant, I must seem pathologically
obsessive”, he admits, smiling. “I reorganize everything on the table, I study the disposition of
the exits and make sure I’m sitting in a corner, or with my back to a wall”. Unlike many
performers who come from the circus world, his isn’t superstitious. However, before every
performance he always follows a specific ritual. There are certain objects – including a comb, a
shoehorn, and a small wooden lion – that he brings with him and arranges just so in his dressing
room, prohibiting anyone from touching them. And the last thing he does before leaving is to pass
his hand over the lion. “In that moment my mind withdraws into a very deep reflective state,
something like prayer”. These small rituals help reinforce the feeling of control over the
situation while eliminating fear.
Petit claims he has never been afraid prior to a performance. If anything, dangerous undertakings
stimulate him, rendering him immune to the perception of risk. “Sometimes the fear comes later,
thinking about what I’ve just done”. Petit is an autodidact who believes in the importance of
breaking the rules. His personal experience has taught him that, with commitment and constancy,
even an absolute law like gravity can be successfully challenged. This has given him enormous
self-confidence which, when he writes books or speaks in public, can come across as arrogance. In
person, however, he presents a more sugar-coated version of himself, and his presumptuous
attitude is compensated by his good manners and the contagious, magnetic power of his passions.
To the point that, if it weren’t still pouring down rain outside, I would be tempted to ask if I
could do what he occasionally allows visitors to do: walk behind him on the wire between the
trees, keeping my balance with my hands on his shoulders.
© Nicola Scevola
In theory, James Osterberg of Muskegon, Michigan should have already died several times: for the injuries he’s collected on the stage, beating himself with whatever is thrown at him; for the headfirst dives into the audience that sometimes end up on the floor; and for the enormous quantity of drugs consumed during the most turbulent years of his long career as a rock star. This year, the iguana of punk, aka Iggy Pop, turned 64. He calls for the interview from his home in Miami. The appointment is for noon and the phone rings at 12 on the dot. “This is Iggy, is Nicola there?”. “Ciao Iggy, I’m Nicola”. An awkward pause is interrupted by hearty laughter. “Sorry”, he says, disappointed, “I was expecting a woman”. The leader of the Stooges, forefathers of the punk rock movement, is a legendary ladies man, a reputation that dates back to when the 18-year-old Iggy seduced Nico, model and muse of Andy Warhol, then grew thanks to his promiscuous attitude, his habit of going a-round half naked and the air of cursed outsider he cultivated with his friend David Bowie, with whom he spent the ‘70s in search of thrills and excess. Their friendship lasted a long while and helped Pop get through the darkest moments of his career, like when he languished for years in a drug-induced haze, forgotten by the public, surviving thanks to the royalties from songs he wrote that were transformed into worldwide hits by Bowie. Today, the times have changed. It’s been seven years since the last time he spoke on the phone with the Thin White Duke.
And from the frenetic pace of New York, where he spent years living on the razor’s edge, he
has passed to a more tranquil life in Miami. The anger that once fueled songs like Lust for Life
and Raw Power seems to have softened. “I still feel the desire to kick some ass, but I no longer
feel like I have to prove anything to anyone”. This must be why Iggy is currently recording, in
addition to a reunion album with the Stooges, a solo record of covers that are light years from
his signature style – from La vie en rose by Edith Piaf and Sinatra’s Only the Lonely to the
ballads of Cole Porter and Serge Gainsbourg. Even his language, though always peppered with
streams of cursing, has become more geared toward not offending anyone, for fear of becoming “an
easy target for critics and judges”. This, however, does not impede him from speaking frankly
about himself. “I need visibility to survive. And not having the talent of a Pavarotti, I have to
compensate with my personality. But being famous is like cooking with lots of oil on a high flame
– if you’re not careful, you burn yourself”. Although he has exerted a strong influence on the
history of rock, as confirmed by his recent induction into the Rock and Roll Hall of Fame, his
music has always alternated between peaks of popularity and valleys of semi-oblivion. A great
experimenter, Iggy started from the frantic rhythms of the Stooges, which inspired bands like the
Sex Pistols and the Ramones, and ended up composing metal and jazz pieces as a soloist, doing
voice-overs for films like Persepolis and participating in reality shows like American Idol.
Without renouncing his past, Pop is no longer overly conditioned by the character of the eternal
rebel, perhaps to avoid the risk of becoming a caricature of himself.
He lives healthily, getting up early and practicing Tai Chi. He lives in a house near the ocean
with a lovely yard and fruit trees. Each month he spends at least a week in the Cayman Islands,
where “nobody cares who I am or what I’ve done in my life”. And when he wants to work, he goes to
his studio in the Haitian quarter, which he considers to be one of the most authentic and
interesting parts of Miami. “I still want to reinvent myself, while maintaining certain old
habits”. Like spending as much time without any clothes. “If I really have to, I’ll put on a
bathing suit”, he says, pointing out that he’s completely nude while talking to me on the phone.
At his concerts, he is still prepared to throw himself into the screaming crowd, he’s just more
attentive to the mood and circumstances. He learned at his own expense that the audience is not
always willing to indulge his passion for stage diving. A few years ago, he was invited to
participate in a benefit concert for Tibet, organized by Philip Glass at Carnegie Hall, New
York’s temple of high-brow music. The orchestra was playing his pieces without energy, so after a
couple of songs Iggy decided to rev up the crowd by leaping headlong into the first row. The
problem was that everyone diffidently moved out of the way. “Luckily they’re not all like that.
There are still audiences ready to welcome me with open arms”, he says, laughing. Beware asking
him if he feels tamed by the years, lest one wants to seriously risk him hanging up the phone.
“There are some who would respect me more if I had refused to talk to you”, he says when I remind
him that he used to be famous for mistreating journalists, while now he seems so cordial. “But at
this point it doesn’t matter”, he adds before closing the interview with a farewell worthy of
Iggy Pop: “You have a good day and all that shit, ok?”.
© Nicola Scevola
The first thing I notice upon arriving beneath a downpour at the country home of Philippe Petit is a steel cable stretched between two trees. The bucolic getaway of the world’s most famous tightrope walker obviously couldn’t be without a training set-up, and the century-old trees in this forest just a couple of hours outside New York seem made for such a purpose. Petit began challenging gravity by walking through the sky at the age of 16. He walked on cables strung between the spires of Notre Dame in Paris, between the pylons of a bridge in and between the buildings of Jerusalem. His most famous performance dates back to 1974, when he connected the tops of New York’s Twin Towers and took a 45-minute high-wire stroll 1,200 feet above the ground. Since then he has done dozens of such stunts, and at age 63 he’s still in good enough form to be planning a new walk between the statues of Easter Island. “I train three hours a day, six days a week, and I feel like I’m at the peak of my career”, he confides after having invited me into his refuge, a small wooden house with walls covered in paintings and drawings of knotted rope.
To stay in shape Petit uses the cable strung between the trees, or when it’s too cold, or
raining like today, he uses a stable next to the house that he built by hand, without electricity
or modern tools. For him, regularly practicing the art of tightrope walking is particularly
important. Petit never employs safety measures for his performances, so knowing his physical and
mental limits means the difference between life and death. “I’ve never even considered the idea
of safety measures”, he assures me, as if surprised by the absurdity of the question. Even when
his mentor, Rudolf Omankowsky, the great Czechoslovakian funambulist, advised him to hide a
safety cord in his costume for the World Trade Center performance, Petit refused. “He said that
no one from the ground would ever know. But I feel like I am half man and half bird, and no bird
has ever flown on a leash”. This modern Icarus is small in stature, with a lean frame and
well-groomed hands: muscular like those of a rock climber, agile like a magician’s.
In addition to his high-wire act, the Frenchman is also a juggler, magician, mountain climber and
enthusiast for any form of DIY. His fingers are capable of tying and untying any knot with
astonishing speed. After all, in his trade this is a fundamental skill, about which he authored a
manual entitled “Why Knot?”, recently published in the US (Abrams Image). Petit personally
designs and builds the various systems for securing the wires he walks on, and before every
performance he obsessively inspects all the knots to ensure that they’re executed properly. This
attention to detail has saved him more than once, noticing just in time little flaws that would
have ruined his show, not to mention his life. This meticulousness is also reflected in his
personal life, which makes him, by his own admission, “a bit of a control freak”. His home is
extremely neat, and every time I inadvertently move something on the table between us, Petit is
quick to put it back in its place. “When I go to a restaurant, I must seem pathologically
obsessive”, he admits, smiling. “I reorganize everything on the table, I study the disposition of
the exits and make sure I’m sitting in a corner, or with my back to a wall”. Unlike many
performers who come from the circus world, his isn’t superstitious. However, before every
performance he always follows a specific ritual. There are certain objects – including a comb, a
shoehorn, and a small wooden lion – that he brings with him and arranges just so in his dressing
room, prohibiting anyone from touching them. And the last thing he does before leaving is to pass
his hand over the lion. “In that moment my mind withdraws into a very deep reflective state,
something like prayer”. These small rituals help reinforce the feeling of control over the
situation while eliminating fear.
Petit claims he has never been afraid prior to a performance. If anything, dangerous undertakings
stimulate him, rendering him immune to the perception of risk. “Sometimes the fear comes later,
thinking about what I’ve just done”. Petit is an autodidact who believes in the importance of
breaking the rules. His personal experience has taught him that, with commitment and constancy,
even an absolute law like gravity can be successfully challenged. This has given him enormous
self-confidence which, when he writes books or speaks in public, can come across as arrogance. In
person, however, he presents a more sugar-coated version of himself, and his presumptuous
attitude is compensated by his good manners and the contagious, magnetic power of his passions.
To the point that, if it weren’t still pouring down rain outside, I would be tempted to ask if I
could do what he occasionally allows visitors to do: walk behind him on the wire between the
trees, keeping my balance with my hands on his shoulders.
© Nicola Scevola
Scarlett Johansson è in ritardo. L’appuntamento era per mezzogiorno in uno studio fotografico nel Meatpacking district di New York ma all’una l’attrice non è ancora arrivata. Ad aspettarla c’è una squadra di una ventina di persone fra fotografo, stylist, parrucchiere e truccatrici. Il set è pronto, le luci posizionate, i vestiti appesi alle grucce e sul tavolo è disposta una fila di scarpe con tacchi vertiginosi. Tutti cercano pazientemente d’ingannare l’attesa, fino a quando dal corridoio esterno non giunge una voce roca inconfondibile. Un attimo dopo Johansson fa il suo ingresso e lo studio si rianima improvvisamente. Oltre allo staff, ad accoglierla c’è un enorme mazzo di fiori con un biglietto firmato da Martin Scorsese: è un omaggio del regista che la notte prima ha lavorato con Johansson fino alle ore piccole per terminare le riprese di una pubblicità, motivo per cui l’attrice si presenta in ritardo allo shooting fotografico. Vista così, con i capelli raccolti, pantaloncini di jeans strappati e occhiali da vista, la venere di Hollywood potrebbe quasi passare per la ragazza della porta accanto. Ma basta che si sciolga i capelli, si tolga gli occhiali e s’infili un vestito attillato per tornare a essere la ninfa nordica che ha fatto girare la testa a registi come Woody Allen, che l’ha voluta per tre volte di seguito nei suoi film.
Sono passati dieci anni da quando Johansson ha interpretato Lost in Traslation, il
lungometraggio di Sofia Coppola che l’ha consacrata come una delle donne più sensuali e richieste
del cinema contemporaneo. Da allora l’attrice ventottenne ha coltivato il ruolo di famme fatale,
spaziando fra i look: dalla bellezza voluttuosa di Match Point al fascino d’acciaio dell’eroina
di The Avengers, passando per lo charme ingenué di Lost In Traslation. Un eclettismo estetico che
si riflette inevitabilmente nel suo stile, da tempo associato con quello dei prodotti della
maison Dolce&Gabbana. “Ho sempre apprezzato il modo in cui Stefano e Domenico celebrano la
femminilità”, dice l’attrice prima di iniziare lo shooting. “Il loro gusto riflette
un’ammirazione per il modello della donna contemporanea che più mi appartiene: indipendente,
enigmatica e seducente”. Per diventare una diva del suo calibro, però, l’estetica non basta.
Oltre a giocare con il sex appeal, Johansson ha dimostrando anche di saper tenere il
palcoscenico, conquistando premi e nomination sia al cinema (Bafta e Venezia per Lost in
Traslation, Golden Globe per La ragazza con l’orecchino di perla e Match Point), che a teatro (
Tony per Uno sguardo dal ponte di Arthur Miller).
“Se hai vent’anni, fai l’attrice e sei attraente, è facile che ti assegnino il ruolo di sex
symbol”, sottolinea l’artista. “La verità è che non l’ho mai cercato. Quando i media me l’hanno
cucito addosso ne ho approfittato e mi sono divertita, tenendo bene a mente che ci saranno sempre
donne più giovani pronte a rimpiazzarmi”. D’altronde Johansson sa bene cosa voglia dire
cominciare presto: ha girato il primo film quando aveva nove anni e a diciotto aveva già recitato
in una dozzina di lungometraggi, fra cui cult del circuito indipendente come Ghost World. Il
timbro particolare della sua voce, che la portava a interpretare standard di Frank Sinatra quando
i suoi coetanei cantavano ancora nei cori per voci bianche, si è rivelata un’arma vincente. “Alle
audizioni spesso spiazzavo i registi che si trovavano di fronte a una biondina con il viso da
cherubino e la voce da camionista”. L’attrice è cresciuta nella Grande Mela e lo dimostra nei
modi diretti e nell’umorismo asciutto, tipico degli abitanti della metropoli. Contrariamente ad
altri bambini-attori che hanno sofferto la transizione all’età adulta, Johansson è sempre
riuscita a tenere i piedi per terra, senza perdere contatto con la realtà. “Vivere a New York mi
ha aiutato a mantenere un minimo di anonimato e a non sentirmi troppo esposta”.
L’altro segreto è stato avere una famiglia e degli amici che l’hanno sempre trattata in modo
normale, abituandola a non sottovalutare i piccoli piaceri della vita, come andare al cinema o
uscire a cena. Oltre a una buona dose di realismo, la città natale le ha trasmesso anche quella
determinazione che la tiene sempre attiva. Se non lavora sul set, ci sono le campagne
pubblicitarie o l’impegno politico. Sostiene Obama fin da quando era senatore, ma non esita a
indignarsi di fronte al programma approvato dal governo americano per spiare i suoi cittadini,
emerso all’inizio dell’estate grazie alle confessioni di un ex collaboratore della Cia. “[Edward]
Snowden è stato coraggioso, ma purtroppo le sue rivelazioni non mi stupiscono”, dice l’attrice,
che ha provato in prima persona la frustrazione di essere spiata. Due anni fa un hacker è entrato
nella sua posta elettronica, disseminando via internet foto private in cui appariva seminuda. “Mi
aspettavo che il governo facesse una cosa simile: è la triste realtà dell’epoca digitale in cui
viviamo”.
In questi giorni Johansson sta girando una pellicola firmata dal maestro francese Luc Besson,
intitolata Lucy. In preparazione al ruolo ha dovuto sottoporsi a un rigido allenamento e imparare
mosse di lotta e arti marziali. “Mi piace interpretare donne che picchiano, ancora di più se
hanno anche una personalità complessa, come nel caso di Lucy. Le riprese sono faticose, ma al
posto di godersi il pensiero del riposo che l’aspetta al termine del lavoro, Johansson sta già
riflettendo sul prossimo progetto, forse il più ambizioso della sua carriera. Si tratta di un
film tratto da un romanzo di Truman Capote, Summer Crossing. Questa volta, invece che davanti
alla telecamera, Johansson sarà dietro. Desidera dirigere un film da quando era teenager ma ha
impiegato anni a raccogliere i fondi. “Non importa quanto sei famoso: non è mai facile quando si
tratta di spendere i soldi degli altri”. Parlando del suo debutto alla regia, per la prima volta
Johansson mostra qualche segno d’incertezza. “E’ il coronamento di un sogno”, confessa prima di
concludere con un filo di agitazione nella voce: “Mancano ancora mesi all’inizio dei lavori,
eppure mi pare già così imminente”. L’attrice non è la sola a cominciare a mostrare un poco di
nervosismo. Il fotografo si avvicina facendo segno di tagliar corto. La stanno aspettando per
posare davanti all’obiettivo. In un attimo Johansson si ricompone ritrovando la solita sicurezza:
in quella posizione è decisamente più a suo agio.
© Nicola Scevola
Con più di centocinquanta film all’attivo, tre mogli attrici e altrettanti figli che lavorano nel cinema, Donald Sutherland ha qualche ragione per dire che la recitazione “è un mestiere di famiglia”. “E’ nel sangue mio come in quello di mia moglie, e i miei figli l’hanno ereditato da noi”, dice l’intramontabile eroe di M.A.S.H. Una predisposizione genetica può aver favorito la continuazione della tradizione familiare, ma l’esempio del capostipite e i suoi incoraggiamenti hanno sicuramente giocato un ruolo fondamentale. A partire dai nomi scelti per i figli, ispirati a famosi registi: Kiefer, pseudonimo del cineasta italiano Lorenzo Sabatini che diresse il primo film interpretato da Sutherland; Rossif, cognome di un documentarista francese; Angus Redford, come il Robert che diresse Donald nel pluripremiato Gente comune. L’ultimo a seguire le orme paterne è stato Rossif, 31enne avuto dal matrimonio con l’attrice canadese Francine Racette.
Musicista, scrittore, attore, il rampollo della famiglia Sutherland ha recitato in vari
episodi della serie televisiva E.R., ha avuto ruoli di supporto in alcuni lungometraggi e ha
finito da pochi mesi di girare un film con il padre. Nonostante i suoi 74 anni, infatti,
l'artista canadese salito alla ribalta nel 1967 con Quella sporca dozzina continua a lavorare a
pieno regime, e questa è la prima volta in cui si è ritrovato insieme al figlio davanti ad una
cinepresa. “E’ stato molto divertente. E' venuto tutto in modo istintivo e automatico”, racconta
l’attore ricorrendo ad una metafora che avrebbe potuto uscire dalla bocca del capitano ‘Hawkeye’
Pierce, il chirurgo della parodia sulla guerra di Corea diretta da Robert Altman. “Il film era il
nostro campo di battaglia e noi ci sentivamo come due commilitoni la cui sopravvivenza dipendeva
dall’intesa reciproca”. La pellicola, che non ha ancora un titolo definitivo ma è
temporaneamente chiamata The steal artist, racconta la storia di un ladro-artista (Rossif) che
esce di prigione con l’idea di guadagnarsi la vita onestamente, ma è costretto a tornare a
delinquere dal suo ex boss (Donald). “Sognavo l’occasione di lavorare con mio padre in un film”,
dice Rossif. “In fondo lui rappresenta la vera ragione per cui mi sono imbarcato in questa
professione”.
Da bambino, Rossif andava spesso sui set per osservare “il grande maestro all’opera”. Al cinema,
poi, non riusciva a guardare con obiettività i film in cui appariva il genitore e soffriva come
se le tragedie dello schermo fossero reali. “Ogni volta che nella storia succedeva qualcosa a mio
padre, mi si spezzava il cuore”, ricorda il giovane Sutherland. “E purtroppo moriva nella maggior
parte dei film!”. Prima di iniziare le riprese, Rossif guardava con ansia al momento in cui si
sarebbe trovato a recitare al fianco del padre: temeva di sentirsi intimidito e giudicato. Spesso
era ricorso al suo aiuto per provare una parte o avere un parere su un copione. Mai prima di
questa volta, però, si era trovato su un vero set, per di più con i ruoli invertiti: lui, il
giovane, nella parte del protagonista e Donald, il veterano, in quella di supporto.
“E’ successo il contrario di quello che mi aspettavo”, racconta. “Ho imparato sulla mia pelle che
un bravo attore come mio padre è capace di metterti a tuo agio, dandoti la possibilità di tirare
fuori il meglio di te”. Invece che ossessionare il figlio di consigli, Donald sostiene di essersi
limitato ad un suggerimento.
“Gli ho ricordato di essere onesto e appassionato perché, come diceva Sam Goldwyn [fondatore
della Metro Goldwyn Mayer, famoso per gli aforismi strampalati, ndr], il segreto per recitare sta
nell’onestà e quando si è capaci di falsificare anche quella non ci sono più problemi’”. Quello
della sincerità è un tema ricorrente per Sutherland.
L’eroe di Dove osano le aquile è sempre stato un idealista. Fin dai tempi delle proteste contro
la guerra in Vietnam organizzate insieme a Jane Fonda, sua compagna a cavallo degli anni
Settanta, l’attore era famoso per inframmezzare le interviste con discorsi politici, oltre che
con citazioni tratte dagli autori più disparati. Oggi i suoi agenti gli consigliano di lasciare
da parte certi temi controversi, ma a volte l’attore non si trattiene. Così, mentre racconta del
rapporto con il figlio, di punto in bianco può capitare che se ne esca con una frase tipo:
“Ultimamente penso spesso ad un commento fatto da uno dei capi degli indiani d’America, Toro
Seduto: sosteneva che la brama di possesso fosse la vera malattia dell’uomo bianco”. I momenti
seri, però, tendono ad essere sempre spezzati da battute e frasi surreali.
Dopo aver descritto la ricerca della verità come l’aspetto più interessante dell’essere attore,
aggiunge sorridendo: “Certo, anche la possibilità di trovare sempre posto al ristorante è un bel
vantaggio…”. E quando gli si chiede qual è il film di cui va più fiero fra quelli che ha
interpretato, risponde: “La Battaglia di Algeri, perché scegliere fra uno dei miei film sarebbe
come chiedermi qual è il preferito fra i miei figli”. Dopo una simile affermazione, non possiamo
certo definire Rossif come il preferito. Descriverlo, però, come molto vicino al padre sembra
appropriato. Entrambi vivono nello stesso quartiere di Los Angeles che si affaccia sull’Oceano e
si vedono di frequente. Al di la di alcune somiglianze fisiche – l’altezza, la presenza distinta,
le orecchie prominenti – Donald ammette di rispecchiarsi molto nel figlio. Come il padre, Rossif
non è sempre stato convinto di voler fare l’attore. Mentre Sutherland senior ha preso una laurea
in ingegneria prima di dedicarsi seriamente al cinema, però, il suo erede ha cominciato
accarezzando l’idea di fare lo scrittore. Un giorno, quando era studente a Princeton, gli capitò
di dover rimpiazzare all’ultimo momento il protagonista di un corto che stavano girando a scuola.
Tornò a casa mostrò il filmato al padre, il quale rimase talmente impressionato che gli
vennero le lacrime agli occhi. “Gli consigliai subito di pensare seriamente a fare l’attore”,
ricorda Donald tradendo ancora una punta di orgoglio residuo. Guai, però, a domandare se
l’entusiasmo con cui fu accolta l’opera prima del figlio non fosse stato influenzato dalla
parentela stretta e dalla speranza che la performance preludesse all’ingresso di un nuovo attore
in famiglia. “Questa è una domanda sciocca”, risponde Donald piccato. “Il mio lavoro di attore
consiste nella ricerca della verità, e tento di applicare lo stesso concetto anche alla mia vita
privata”. Il capitano fascista del 900 di Bertolucci credeva nelle potenzialità del figlio al
punto da proporgli di andare a New York per seguire le lezioni di un famoso insegnante di
recitazione. “All’inizio non ero convinto: mi sembrava che lavorare per fingere di essere qualcun
altro non potesse aiutarmi a scoprire chi ero io veramente”, confessa Rossif. Con il tempo, però,
il ragazzo si è lasciato conquistare dal fascino della professione. “Ero curioso di scoprire i
trucchi dietro le quinte”. Una volta imparati, The steal artist gli ha dato l’occasione di
condividere questi trucchi con il padre, dando vita ad un esperienza che va ben oltre l’impresa
cinematografica. “Non so se il film avrà successo, ma rappresenterà comunque un grande capitolo
nel piccolo libro della mia vita”.
© Nicola Scevola
Hanno la stessa età, condividono il medesimo obiettivo e hanno giocato insieme decine di volte, trovandosi persino a fare pipì dietro la stessa macchina durante un incontro di Coppa Davis durato più di sette ore. Nonostante questo, non possono definirsi amici. Lo svizzero Stanislas Wawrinka e il ceco Tomáŝ Berdych fanno parte della stessa generazione di tennisti cresciuti all’ombra dei quattro super-atleti che monopolizzano i vertici della classifica ATP da quasi dieci anni: Roger Federer, Rafael Nadal, Novak Djokovic e Andy Murray. Da qualche tempo entrambi sono entrati nella rosa dei migliori tennisti al mondo, tentando in vano di spezzare il dominio dei quattro Signori dello Slam. All’inizio dell’anno, però, qualcosa è cambiato: Wawrinka ha conquistato l’Australian Open, scavalcando temporaneamente il connazionale Federer nel ranking ATP. Oltre a cambiare la vita del 29enne svizzero, questa vittoria ha trasformato anche le prospettive del suo coetaneo e avversario, Berdych. “Avrei ovviamente preferito essere al suo posto”, ammette il tennista ceco. “Ma la conquista di Stan ha fatto breccia nel muro dei grandi quattro, dando anche a me fiducia di potercela fare”.
Nonostante questa comunanza d’intenti, o forse proprio per questo, i due tennisti non vogliono
definirsi amici. I vertici del circuito dell’ATP sono come un grande circo di gente che viaggia
dandosi appuntamento sui campi di tutto il mondo. Le facce sono quasi sempre le stesse e si
conoscono tutti, ma raramente i rapporti vanno oltre. Essendo il tennis uno sport psicologico
oltre che fisico, diventa più complicato quando ci si trova davanti ad un amico come avversario.
Lo sa bene Wawrinka, che non ha mai fatto segreto del suo buon rapporto con Federer. “Roger è
difficilissimo da battere, più che altro per il suo gioco micidiale”, dice il tennista cresciuto
nelle alpi vicino a Losanna. “Ma è vero che può essere più difficile giocare in modo spietato
quando ti trovi contro una persona che conosci bene”. Proprio per gestire al meglio questo genere
di ostacoli, Berdych ha chiesto aiuto a un mental coach. “Evitare che la mente divaghi nei tempi
morti di una partita è fondamentale per mantenere la concentrazione e vincere”, spiega il
tennista ceco. “Gli esercizi che faccio sono un segreto, ma l’obiettivo è rendere più sistematico
il mio modo di giocare”. La frequenza con cui i migliori si scontrano sul campo, però, rende
inevitabile che si crei un certo cameratismo fra giocatori.
Wawrinka e Berdych sono stati, ad esempio, protagonisti del doppio più lungo della storia
dell’ATP, avvenuto l’anno scorso e durato ben sette ore e due minuti. Oltre a fronteggiarsi dai
lati opposti del campo insieme a Marco Chiudinelli e Lukas Rosol, durante questa mitica sfida i
due sono stati costretti a creare “un’alleanza di comodo” per aggirare le regole della Coppa
Davis. Il torneo, infatti, prevede solo due intervalli abbastanza lunghi da permettere ai
giocatori di raggiungere i bagni degli spogliatoi. Ma in una partita così lunga, con l’ultimo set
durato 46 games, occorre bere per evitare la disidratazione e due pause non sono sufficienti.
Perciò, durante il cambio campo fra un game e un altro, gli avversari si sono trovati a schizzare
insieme fuori dal campo verso il parcheggio per svuotarsi dietro una macchina e tornare in meno
di un minuto e mezzo. “E’ stata una partita talmente eccezionale da lasciarmi un buon ricordo
nonostante la sconfitta”, ricorda Wawrinka. Ma al di là della condivisione di questi momenti, i
due rimangono molto diversi, sia come giocatori che come persone. Wawrinka è famoso per avere un
micidiale rovescio a una mano, Berdych lo è per il suo dritto potente.
Lo svizzero è felicemente sposato e ha una figlia di quattro anni a cui cerca di dedicare tutti i
momenti in cui non è in viaggio, mentre il ceco è fidanzato con la modella 22enne Ester Satorova.
Il primo ha scarso interesse per la moda, il secondo veste con stile, è diventato da poco
testimonial di H&M e si diverte a contribuire al design delle uniformi create per lui dal marchio
svedese. Mentre Berdych è affabile e parla volentieri dei suoi interessi privati, come la
passione per gli orologi, Wawrinka risulta più freddo e distaccato. D’altronde lo svizzero non
nasconde che la sua vita è stata ribaltata dalla vittoria di Melbourne.
“C’è più da fare sul campo, perché nei tornei sei spesso considerato una testa di serie. E anche
fuori, dove si creano più pressione e attenzione mediatica. Non mi lamento, ma devo ancora
adattarmi”. Con la conquista di un torneo del Grande Slam, e l’ingresso nel gotha dei primi 3
giocatori al mondo, Wawrinka ha realizzato un sogno che non avrebbe mai creduto raggiungibile.
L’erede di Federer nel tennis elvetico ha cominciato a giocare a 8 anni e ad allenarsi seriamente
verso i 16, piuttosto tardi per sperare di ottenere grandi risultati. “Fatico ancora a crederci.
Ero un ragazzino iperattivo e i miei genitori volevano semplicemente che facessi uno sport per
sfogarmi. Mai avrei immaginato di arrivare tanto in alto”. La sua filosofia, fatta di modestia e
successi graduali, è riassunta nella frase del drammaturgo Samuel Beckett, che porta tatuata sul
braccio sinistro: “Sempre provato. Sempre fallito. Non importa. Fallisci ancora. Fallisci
meglio”. Anche Berdych ha cominciato a giocare senza grandi aspettative. E’ stato il padre, un
ingegnere patito della terra rossa, a iscriverlo ai primi tornei.
“All’inizio non mi piaceva neanche. Per fortuna mi convinse a tenere duro e a non mollare”, dice
il tennista che, ad oggi, ha accumulato una fortuna di oltre 18 milioni di dollari solo grazie ai
tornei. Entrambi i giocatori sono molto attivi sui social media, Twitter in particolare. Durante
i tornei sono troppo concentrati sul gioco. Twitter invece dà l’opportunità di mostrare un lato
diverso di sé. Ma mentre i post dello svizzero restano sempre sul tema del tennis, il ceco ama
divagare, postando musica, battute e foto personali. “I tennisti di oggi sono piuttosto noiosi da
guardare, tutti concentrati per paura di fare il minimo errore”, sottolinea Berdych. “I social
media consentono di offrire qualcosa di diverso, senza compromettere l’obiettivo comune a tutti:
vincere”.
© Nicola Scevola
Per fortuna c’è chi riesce a imparare a suonare uno strumento anche sui libri. Altrimenti un talento come Cassandra Wilson avrebbe rischiato di abbandonare la musica molto presto. Privando il mondo intero di una delle voci più appassionanti del jazz contemporaneo. Wilson, 56enne originaria di Jackson, Mississippi, inizia a prendere lezioni di piano e clarinetto quando ha appena sei anni. Molto presto, però, i metodi tradizionali dei suoi insegnanti cominciano a starle stretti. E’ allora che il padre, musicista e fine conoscitore dello spirito ribelle e testardo della figlia, le mette in mano un libro per chitarristi autodidatti, spronandola ad esplorare la musica in modo più libero e intuitivo. Ispirata dalla proposta, Wilson si butta a capofitto nel jazz e nel folk, scrivendo brani e affinando voce e chitarra allo stesso tempo. E forgiando lo spirito indipendente che da allora l’ha sempre distinta, trasformandola in pioniera della cross-pollination, stile meticcio che fonde jazz, pop, blues e world music e le ha già fruttato due Grammy Awards.
Quando la incontriamo in uno studio fotografico affacciato sull’Hudson River di New York, Wilson porta grandi orecchini a forma di violino, una maglietta a maniche nere e pantaloni svolazzanti. Fuma una sigaretta dopo l’altra, il che rende più facile intuire la natura densa e profonda del suo timbro di voce. I capelli sono arrangiati in lunghi locks (non dreadlocks, come tiene a specificare), ormai divenuti un marchio di fabbrica insieme alla sua voce da contralto. Li tiene così dai tempi del liceo, quando comincia a rompere le prime barriere, interpretando la parte di Dorothy nel musical Il Mago di Oz, prima volta che il ruolo viene affidato a una studentessa afroamericana in uno Stato che ha abolito le leggi di segregazione razziale da poco. D’altronde uscire dagli schemi è sempre stato una sua specialità.
Arrivata all’università di Jackson negli anni Settanta, fonda una bebop band con due musicisti bianchi. E continua a sperimentare, spostandosi a New York e mescolando generi musicali diversi, da solista o con un collettivo jazz chiamato M-Base. Quando comincia a girare l’Europa in tournè, arriva nel nostro paese e se ne innamora follemente. Solo i nugoli di zanzare di qualche arena estiva rischiano di rovinare l’idillio. Ma è un difetto trascurabile. Tanto che, ancora oggi, Wilson cerca sempre di avere più date possibili nel nostro paese. E nell’ultimo album uscito quest’estate, prodotto insieme al chitarrista italiano Fabrizio Sotti e intitolato Another Country, ha voluto incidere una versione di O Sole Mio. “So che può sembrare strano che una cantante americana si confronti con un pezzo simile”, dice Wilson un’inglese con l’accento cantilenante tipico del sud degli Stati Uniti. “Ma è un pezzo che mi è sempre piaciuto, soprattutto nella versione originale di Mario Lanza”.
Sta lavorando a quest’opera dal 1992. Pensa che il governo le concederà il permesso di realizzarla? “Cerco di essere ottimista ma nascondo di essere anche angosciato: nella nostra carriera abbiamo portato a termine 22 progetti ma ne abbiamo visti rifiutare 37”, dice Christo mostrandoci i disegni preparatori di Over The River nella galleria privata sotto il suo studio di New York. Quando parla delle sue opere, l’artista di origini ungheresi usa sempre il plurale, come per sottolineare l’importanza della coppia nella sua produzione artistica.
Lei parla italiano? “Solo poche parole. Ma è una lingua che sento molto vicina. Nella mia O Sole Mio ho cercato di restare fedele al testo in dialetto napoletano, trovando allo stesso tempo un modo originale di reinterpretare la canzone”.
Da dove viene questa passione per l’Italia? “E’ una questione di vibrazioni. C’è qualcosa nel modo in cui la gente si muove, parla e mangia che mi è familiare. Non so esattamente perché. Forse ha a che fare con la cultura meridionale in generale, che sia del sud d’Europa o del sud degli Stati Uniti. Nel vostro paese c’è un modo di godersi la vita che mi fa sentire a casa”.
Ci ha passato molto tempo? “Sì, per lavoro. Suonare in Italia rende qualsiasi tournè più leggera. C’è una sensualità nella cultura e nel cibo che non esiste da nessun’altra parte. Per questo cerco sempre di prenotare più concerti possibili in Italia. Guadagno meno che suonando in Francia o in Germania ma ne vale la pena”.
Anche quando è costretta ad abbandonare il palco per le troppe zanzare come successe qualche anno fa durante un concerto nell’hinterland milanese? “No, infatti continuo ad avere un problema con Milano. Non mi è mai capitata una cosa simile. E sì che abbiamo tante zanzare anche dalle mie parti in Mississippi”.
Oltre a suonare basso e chitarra, suo padre era anche maestro di musica. Perché ha preferito metterle in mano un libro per autodidatti anziché insegnarle personalmente? “Quando ho abbandonato le lezioni di piano ero talmente stufa che pensavo di smettere di suonare. Mio padre capì che nel mio caso un approccio intuitivo avrebbe funzionato meglio di uno formale. Mi ha sempre appoggiato molto, a differenza di mia madre, che era preoccupata dal tipo di vita che avrei potuto fare come musicista”.
Lei è stata una pioniera delle contaminazioni musicali fra generi differenti. Oggi questa pratica è diventata piuttosto comune, anche grazie all’uso della tecnologia. “E’ cambiato il modo in cui si crea musica, ma la tendenza a fondere generi diversi rimane la stessa. Oggi i giovani usano più i software degli strumenti musicali. Ma il processo per arrivare al prodotto finale rimane invariato”.
Com’è cambiata la sua voce nel tempo? “Stratificandosi e acquisendo più sfumature. Le esperienze della vita hanno contribuito ad arricchire la mia voce”.
Da sempre la sua capigliatura è uno dei suoi tratti distintivi, come se ne prende cura? “Non pettinandoli mai e lasciandoli crescere nella loro forma naturale a spirale. Li taglio solo raramente. L’ultima volta è stata due anni fa. Erano diventati scomodi per dormire la notte. Continuavo a muoverli per trovare la giusta posizione sul cuscino. Per il resto è tutto naturale. Avendo capelli come i miei, basta lavarli senza usare l’asciugacapelli. E se è inverno, sto a casa al caldo fino a quando non sono ben asciutti”. © Nicola Scevola